“Il buon pastore dà la sua vita per le pecore”

Predicazione tenuta da Andrea Panerini il 16 aprile 2010 a Casa Cares in occasione del ritiro-convegno dell’Associazione “Fiumi d’acqua viva”

Io sono il buon pastore; il buon pastore dà la sua vita per le pecore. Il mercenario, che non è pastore, a cui non appartengono le pecore, vede venire il lupo, abbandona le pecore e si dà alla fuga (e il lupo le rapisce e disperde), perché è mercenario e non si cura delle pecore. Io sono il buon pastore, e conosco le mie, e le mie conoscono me, come il Padre mi conosce e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. Ho anche altre pecore, che non sono di quest’ovile; anche quelle devo raccogliere ed esse ascolteranno la mia voce, e vi sarà un solo gregge, un solo pastore. Per questo mi ama il Padre; perché io depongo la mia vita per riprenderla poi. Nessuno me la toglie, ma io la depongo da me. Ho il potere di deporla e ho il potere di riprenderla. Quest’ordine ho ricevuto dal Padre mio». Nacque di nuovo un dissenso tra i Giudei per queste parole. Molti di loro dicevano: «Ha un demonio ed è fuori di sé; perché lo ascoltate?» Altri dicevano: «Queste non sono parole di un indemoniato. Può un demonio aprire gli occhi ai ciechi?»
In quel tempo ebbe luogo in Gerusalemme la festa della Dedicazione. Era d’inverno, e Gesù passeggiava nel tempio, sotto il portico di Salomone. I Giudei dunque gli si fecero attorno e gli dissero: «Fino a quando terrai sospeso l’animo nostro? Se tu sei il Cristo, diccelo apertamente». Gesù rispose loro: «Ve l’ho detto, e non lo credete; le opere che faccio nel nome del Padre mio, sono quelle che testimoniano di me; ma voi non credete, perché non siete delle mie pecore. Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono; e io do loro la vita eterna e non periranno mai e nessuno le rapirà dalla mia mano. Il Padre mio che me le ha date è più grande di tutti; e nessuno può rapirle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo uno».

Gv. 10,11-30

Cari fratelli e care sorelle,
questa pericope che costituisce il brano della predicazione di questa domenica è un testo molto conosciuto nella cristianità. In quasi tutte le liturgie delle chiese cristiane è collocato la seconda o la quarta domenica dopo la Pasqua: tutti noi lo conosciamo eppure poche volte ci siamo soffermati veramente sul suo significato profondo. E’ facile imbattersi in illustrazioni e sermoni allegorici  dove si tende a banalizzare la portata teologica del “buon pastore”, riducendo Gesù a una figurina da scambiare con altre. Questo brano invece è centrale in tutta la teologia giovannea ed è uno degli elementi fondamentali di tutto il Nuovo Testamento.
In greco il termine “kalòs” più che “buono” significa “generoso” oppure “perfetto”: la perfezione di Gesù, che lui ci offre perchè noi la possiamo imitare, è la perfezione dell’agape, dell’amore cristiano che si realizza – nella sua più alta espressione –  nella croce “scandalo per i giudei, follia per i greci” (1Cor. 1,23), nel completo dono di sé nei confronti degli altri, nel sacrificio più alto.
Il riferimento, qui, alla morte di Gesù è evidente, ma – più di ogni altra cosa – è evidente il senso, il significato di questa morte: Gesù muore affinchè nessuno più possa morire, perde la vita per donarla agli altri, perisce affinchè nessuno possa perire, subisce una violenza inaudita perchè non vi sia più violenza, subisce lo scherno dei soldati e del popolo perchè non vi possa essere più alcuna discriminazione ma rispetto per la dignità di ogni essere umano, subisce un processo iniquo perchè nessuno possa più giudicare, muore solo – abbandonato dai suoi – perchè nessuno sia lasciato più solo di fronte alla sofferenza.
L’insidia, per un predicatore, è quella di identificarsi eccessivamente con il “buon pastore” sotto tutti i punti di vista, mentre è necessario ricordarsi sempre di quei “tutti” che hanno preceduto Gesù come ladri e banditi (10,8) e che probabilmente erano scribi che insegnavano la Torah. Giovanni immette nei discorsi di Gesù, caratterizzati dalla formula “Io sono”, una nota di autorità che invita il credente ad identificarsi con Gesù stesso: è la pienezza del Dio vivente che si rivela nella croce e nella passione del Dio che si è fatto uomo. Gesù invita a identificarsi con lui, pur nella consapevolezza che non potremo mai nemmeno lontanamente imitare la sua perfezione: è un discorso rivolto a tutto il popolo cristiano ma in modo particolare verso chi svolge un ministero dentro le chiese. Troppe volte si è tentati, dal pulpito, di impersonare in maniera esclusiva “il buon pastore”: il ministro consacrato come immagine di Gesù. Ma l’immagine di Gesù si rivela nei fratelli e nelle sorelle più piccoli, più umili: bisogna sempre cercarla lì e non mitizzare chi deve essere a servizio della comunità. Il ministro di Dio è un servitore: serve la Parola e deve prendere a modello il Signore, nella consapevolezza di non poterlo mai raggiungere pienamente, e nell’umiltà del proprio servizio. Mi viene in mente, come esempio, la vita del pastore valdese Tullio Vinay (1909-1996), che fu anche senatore della Repubblica dal 1976 al 1983 come indipendente nelle file del PCI. Da pastore della chiesa valdese di Via Manzoni a Firenze salvò alcune decine di ebrei dalla persecuzione nazista, rifugiandoli in un vano segreto, quasi alla Anna Frank, dentro il palazzo dove era ospitata la chiesa e il suo appartamento pastorale. Corse enorme pericoli, compreso un tentativo di infiltramento da parte di fascisti repubblichini, sventato grazie alla sua sagacia e alla sua abilità oratoria. Dopo la guerra questo suo gesto, che lui stesso considerava una normale espressione del suo ministero nonostante i rischi, rimase per anni segreto fino all’inizio degli anni ottanta quando il governo israeliano lo proclamo “Giusto tra le nazioni” e lui, nel ricevere l’onorificenza, non mancò di criticare la politica di quel paese nei confronti dei palestinesi, che lui reputava lesiva della dignità umana. Nel frattempo Vinay aveva realizzato due progetti visionari: nel 1947 (ben prima del Concilio Vaticano II) aveva cominciato a costruire il centro ecumenico di Agape, a Prali in provincia di Torino. Non era facile in quegli anni pensare a un mondo di pace e di fratellanza, a una composizione tra le chiese cristiane, a un nuovo rapporto con Dio. Gli domandarono quando nacque l’idea di fondare questo centro, ed egli rispose: “Quando abbiamo scoperto, con stupore e sorpresa, che Dio ci ama”. Il secondo progetto, il Servizio Cristiano di Riesi, significava e significa ridare dignità a un popolo e a una terra ferita nel profondo dalla mafia e rifiutare la rassegnazione nei confronti della criminalità: fu minacciato più volte, affrontando questa prova come segno di amore di Dio nei suoi confronti. In Vinay non c’è mai stato né l’atteggiamento da santo (tanto gradito a un certo modo cattolico), né rassegnazione ma una operosa testimonianza, spesso operata in silenzio, del Regno di Dio che deve essere già in mezzo a noi. Egli era conscio della sua inadeguatezza e l’ha messa nelle mani del suo Signore perchè fosse opera della Grazia.
“Io sono il buon pastore”: Gesù ci chiede di abbandonarci a lui, come un neonato si abbandona totalmente alla madre. E’ la visione non del Dio vendicativo, del Dio degli eserciti e dei troni, ma di un Dio che ci ama incondizionatamente, che si fa uomo e realizza lo scandalo della croce per manifestare il suo amore sconfinato nei confronti dell’uomo. Un Dio che non chiede doni o sacrifici ma ci chiede di accettare il suo amore per noi. La cosa più difficile: nella sua ricerca l’uomo spesso non riesce a capire che a volte è necessario fermarsi e accettare di essere amati, dal Signore come dai nostri fratelli e dalle nostre sorelle.
“Io sono il buon pastore”significa che Gesù è fonte e garanzia di salvezza e che possiamo fidarci di lui. Il nostro cammino è spesso irto di difficoltà che ci appaiono insuperabili: senza alcuna rassegnazione o attendismo, lui ci dà la forza per superarli: “Confida nel SIGNORE con tutto il cuore e non ti appoggiare sul tuo discernimento. Riconoscilo in tutte le tue vie ed egli appianerà i tuoi sentieri.” (Pr. 3,5-6)
“Io sono il buon  pastore” significa che Gesù è il pastore di tutti, nessuno escluso, è un rapporto che include, che trasforma. Non ci sono discriminanti né di razza, né di sesso, né di orientamento sessuale e affettivo, né di idee politiche: egli sacrifica la propria vita per tutti e vuole riunire tutti nel suo gregge, anche le pecore che non lo conoscono lo conosceranno e si faranno amare.
Signore aiutaci a capire che tu solo sei il nostro pastore, facci comprendere come si può resistere ai nuovi falsi profeti e ai mercenari, illuminaci con la forza del tuo amore. Amen.

Andrea Panerini

Pubblicato il 22 aprile 2010, in Associazione, Chiesa valdese con tag , , , , , , . Aggiungi il permalink ai segnalibri. Lascia un commento.

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